La costruzione del carcere di Santo Stefano va inquadrata nel contesto della colonizzazione delle isole dell’arcipelago ponziano, colonizzazione avvenuta per volere del re Ferdinando IV già a partire dal 1768. Ci troviamo in pieno illuminismo. Nella seconda metà del settecento si andava delineando l’ideologia di Rousseau che ebbe un forte eco in tutt’Europa: al 1754 risaliva il “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini” che denunciava la civiltà come sede di tutti i mali contrapponendola allo stato di natura, al 1762  era invece datato “il contratto sociale” che insisteva sulla necessità di dare al popolo il potere di auto governarsi. Nel 1764 Beccaria con “Dei delitti e delle pene” pronunciandosi contro la pena di morte e contro la tortura, aveva inoltre innescato un dibattito epocale destinato ad avere profonde ripercussioni in tutto l’occidente. In questo clima di rigenerazione totale Ventotene divenne oggetto di un esperimento che il Tricoli, autore di un’importantissima Monografia dell’arcipelago ponziano redatta sulla base delle fonti dell’archivio di Ponza prima che fosse incendiato dal Pisacane, definisce alquanto bizzarro ovvero la creazione di una colonia penale, lontana dalla civiltà, in un contesto naturale ancora non urbanizzato e dove fu lasciata molta libertà ai ladri e alle prostitute che vi si mandarono. Dopo i primi tempi abbastanza tranquilli l’obiettivo dell’autogoverno fallì per cui si procedette alla colonizzazione delle isole attraverso metodi tradizionali. Siamo già nel 1771. Dopo aver provveduto alla costruzione dei paesini nelle isole maggiori abbandonate da secoli d’incuria, si procedette alla costruzione del carcere di Santo Stefano nel 1794- 1795 per mano dei primi carcerati mandati lì ai lavori forzati. Il 26 settembre 1795 il Tricoli la indica come data in cui la struttura dell’isola di Santo Stefano, a un paio di chilometri da Ventotene, iniziò ad espletare la funzione di carcere. Visto dall’alto con le successive aggiunte il carcere ci ricorda un’ omega, la lettera finale dell’alfabeto greco. E in effetti il carcere rappresentò la fine della vita di coloro che erano condannati alla cosiddetta fine pena mai. Non sappiamo se la forma progettata e realizzata sotto la guida del Carpi e del Winspeare volesse volutamente avvicinarsi a quella dell’omega. Sappiamo però con certezza che la planimetria del carcere è ben sovrapponibile a quella del teatro san Carlo di Napoli, la planimetria più copiata a livello architettonico in quegli anni e che, tra l’altro, ben si confaceva ad una struttura carceraria, la prima in Europa ad essere costruita secondo principi moderni propugnati da Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese autore di una pubblicazione sull’architettura delle carceri nel 1786. Dal punto di vista pratico, il ferro di cavallo permetteva una visuale a tutto campo, una cosiddetta visuale panottica per cui diveniva difficile sfuggire al controllo della sentinella che da sola poteva tenere sotto controllo l’intera situazione. In questo modo il detenuto era già psicologicamente sconfitto. Dal punto di vista simbolico non possiamo far a meno di osservare che la sovrapposizione di tre piani di arcate e di celle e la presenza di celle sotterranee, ricordava quasi la disposizione a gironi dell’inferno di Dante. La cappella si trovava al centro nel cortile interno al ferro di cavallo in modo che tutti i carcerati guardassero l’altare dalla propria cella e assistessero in questo modo alla messa.
Cinque epoche in tutto si susseguirono in quelle celle: quella borbonica, quella liberale, quella fascista, quella della nuova Italia repubblicana. Di queste epoche, la pagina più bella e più speranzosa di cui abbiamo testimonianza è sicuramente quella scritta da Eugenio Perucatti, direttore del carcere di Santo Stefano nel secondo dopoguerra.
Francesca Romano