La normativa inerente i beni culturali, nata dalla consapevolezza del valore storico, archeologico, culturale del patrimonio artistico porta con sé la volontà di preservarlo dal tempo, dall’incuria e spesso dall’intervento dell’uomo. Relativamente agli interventi di tutela nel Regno delle Due Sicilie, la riscoperta delle antiche città di Ercolano nel 1738 e di Pompei dieci anni dopo, dava il via ad importanti provvedimenti di tutela del patrimonio archeologico ed artistico.  Le prime scoperte archeologiche nelle città vesuviane suscitarono la curiosità di studiosi e ricercatori, ma anche di trafficanti d’antichità, che non esitavano a trafugare opere d’arte e tesori dissepolti. Basti pensare ai lauti bottini in opere d’arte (trafugate dalle chiese e dalle residenze nobiliari napoletane) che, negli anni a seguire, francesi e piemontesi portarono al seguito risalendo verso nord.
Non mancarono neppure antiquari e collezionisti, che approfittarono delle ricerche archeologiche per arricchire le proprie collezioni private e quelle di cardinali e famiglie reali.
Carlo di Borbone, promotore degli scavi di Ercolano e Pompei, profondamente turbato dalla superficialità nella conservazione dei ritrovamenti,  decise di interessarsi alla questione e di intervenire nella salvaguardia del patrimonio artistico emanando, nel 1755, il provvedimento che sancì il divieto di esportazione per gli oggetti d’arte  ritenuti  artisticamente  importanti   “per  eccellenza  di  lavoro, artificio, o altre rarità”. Esso stabilì, inoltre, che per ogni oggetto estratto si sarebbe dovuto pagare un diritto di tratta, stabilito sulla base del valore assegnato ai singoli oggetti dagli esperti nominati dal Tribunale della Camera.
I dettami di tale provvedimento furono confermati ed ampliati nel provvedimento del 13 maggio 1822, emanato da Ferdinando I di Borbone. Il primo articolo dell’editto vietava di togliere dai loro siti “tutti gli oggetti e i monumenti storici e di arte che esistono”, Il secondo proibiva la demolizione, anche in fondi privati, di “antiche costruzioni”; il terzo, infine, sanciva il divieto di esportazione di oggetti antichi e di arte, anche di proprietà privata, senza una preventiva autorizzazione.
Il suddetto decreto prevedeva, inoltre, l’istituzione di una Commissione d’Antichità e Belle Arti, incaricata della vigilanza sul patrimonio artistico e del rilascio delle autorizzazioni per le esportazioni. Il giorno successivo all’emanazione del decreto, il 14  maggio 1822, furono stabilite le norme per la disciplina degli scavi archeologici e la conservazione dei reperti rinvenuti. Esso imponeva di denunziare, entro tre giorni, il rinvenimento di reperti archeologici al sindaco del luogo, che immediatamente avrebbe messo in moto il complesso iter burocratico, inviando una relazione all’intendente della provincia, che, a sua volta, avrebbe trasmesso rapporto alla Commissione di Antichità e Belle Arti per l’esame dei reperti. Qualunque fosse il loro valore, essi erano considerati per legge proprietà degli scopritori. In caso di scavi clandestini, di mancata denunzia dei reperti, di restauri arbitrari o di alienazioni abusive, lo scopritore era punito con la perdita degli oggetti ritrovati e con una sanzione pecuniaria da stabilirsi a seconda dei casi.
Relativamente agli scavi di Pompei, nel 1822 il governo borbonico deliberò di spendere ben 3000 ducati all’anno per i restauri, e fu costituita una speciale commissione per vigilare ed organizzare le metodologie da impiegare.  Poiché incettatori e trafugatori riuscivano ancora ad eludere il controllo degli intendenti, due anni dopo, un Rescritto datato 22 settembre 1824, prese atto della situazione e delle enormi inadempienze degli operatori dei siti archeologici, ordinando a speciali agenti di Polizia di investigare e vigilare su tutte le operazioni di scavo archeologico. Questa situazione, delicata e complessa, durò fino al 16 settembre 1839, quando Ferdinando II emanò un nuovo decreto che sostanzialmente riconfermò quanto disposto nel decreto del 13 maggio 1822 di Ferdinando I. Esso affidava la sorveglianza dei monumenti alle autorità amministrative, coadiuvate dall’Accademia di Belle Arti e controllate dal Segretario di Stato per gli Affari interni; che avevano il compito di vigilare al fine di evitare di deturpare l’antico con lavori moderni e di impedire interventi di restauro senza preventiva autorizzazione degli organi competenti. Durante il governo di Francesco I non mancarono, grazie anche all’interessamento del sovrano, iniziative concrete per la realizzazione di progetti di legge in merito alla tutela del patrimonio artistico ed archeologico. Egli promosse la redazione di un progetto di legge organica sugli scavi vesuviani e sulla tutela dei beni del Regno, che avrebbe dovuto precisare, compendiare, completare e migliorare la precedente legislazione borbonica. Il progetto di legge non trovò mai effettiva attuazione, sebbene ritenuto interessante, anche durante il regno di Francesco II,  nelle norme riguardanti la salvaguardia e la godibilità dei contesti, le prescrizioni riguardanti il restauro di edifici ed oggetti, la documentazione degli scavi e la pubblicazione dei risultati.
In realtà, i tentativi di corretta gestione dei beni culturali non produssero sempre i risultati sperati, ma è importante ricordare l’importanza della politica culturale nel Regno delle Due Sicilie e sottolineare quanto il patrimonio artistico napoletano sia stato considerato e tutelato dalla legge durante tutto il regno borbonico.
di Agnese Serrapica