La maggior parte della produzione del Regno destinata al commercio interno e estero proveniva dall’artigianato. Parliamo d’altra parte di prodotti come guanti, cappelli, stoviglie, mobili, la cui produzione in serie avrebbe forse fatto torto all’unicità e al valore artistico di ogni pezzo. Altri settori manifatturieri tuttavia, volti alla produzione di oggetti più legati ad una funzionalità tecnica piuttosto che estetico- artistica, più facilmente passarono dalla fase artigianale a quella industriale. Parliamo, ad esempio, dell’industria siderurgica la cui esistenza fu indispensabile per lo sviluppo dei cantieri navali, per la produzione delle prime navi a vapore e dei primi treni.
Inizialmente l’opificio di Pietrarsa, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, era nato come una scuola per formare i macchinisti sulla novità della macchina a vapore. Ferdinando II ordinò quindi l’acquisto di tre piroscafi inglesi: il Nettuno, il Ferdinando II e il S. Wenefredo gestiti da un equipaggio inglese. In occasione della crisi degli zolfi tra il governo britannico e quello napoletano, l’equipaggio inglese che conduceva i piroscafi minacciò di abbandonare le navi, dimostrando fedeltà al proprio governo. A questo punto, su consiglio del Filangieri,  Ferdinando II di Borbone decise di dar vita a Pietrarsa ad un vero e proprio stabilimento siderurgico in modo da poter acquisire una certa indipendenza in questo campo, senza dover dipendere da stranieri. In breve Pietrarsa divenne quindi un importante polo siderurgico e metalmeccanico, il colosso dell’industria partenopea e italiana, adattato alla produzione di artiglierie per l’esercito, per la marina, di macchine a vapore, locomotive, vagoni e binari. Oltre a lavori pesanti di questo tipo, si realizzavano nell’opificio anche macchinari di precisione come quelli utilizzati per ricoprire di seta i fili metallici dei telegrafi elettrici. Oltre allo stabilimento di Pietrarsa, troviamo altri opifici di minore importanza come il cantiere di Castellammare di Stabia e l’arsenale di Napoli che se fino ad allora erano specializzati per la costruzione di navi in legno, a partire dal 1845 iniziarono a riconvertirsi per produrre le prime navi in ferro. 43 mila tonnellate di pirovascelli, cannoniere e fregate uscirono quindi dal cantiere di Castellammare, mentre l’Arsenale dotato nel 1852 del primo bacino di carenaggio in muratura in Italia, anche all’indomani dell’unità non fu abbandonato dal nuovo Regno italiano continuando a dar lavoro a 1600 operai. Tra i 100 e i 150 erano invece gli operai tra fonditori, limatori, staffatori, forgiatori e fuochisti che lavoravano nella Real Ferrovia, producendo anche manufatti in bronzo e cuscinetti per ferrovie. Dall’opificio della strada ferrata uscivano poi pezzi in ferro fuso di piccole e grandi dimensioni, come locomotive, vagoni, carrimatti, incrociamenti. Le armi da fuoco e le armi bianche erano prodotte invece dalla Real Manifattura di Torre Annunziata che arrivava a creare con l’acciaio brillantato, dei prodotti di lusso che superavano di gran lunga le armi d’Inghilterra e di Francia, mentre la Real Fonderia di Castelnuovo provvedeva alla produzione di cilindri scanalati e di cannoni. Ma il complesso industriale non riguardava solo Napoli e dintorni. A Mongiana, presso Monteleone Calabro, oggi provincia di Vibo Valentia, una Real Ferriera situata nelle vicinanze di una miniera di ferro e grafite da questa amministrata, con i suoi due alti forni per la ghisa, sei raffinerie ed officine minori, forniva prodotti di gran pregio all’esercito e alla marina dando lavoro a circa un migliaio di persone tra personale statale, carbonieri, mulattieri, artefici e manovali. Da questi forni uscivano anche armi in ferro fuso e ricambi per le ferrovie.
Questi elencati finora erano tutti opifici pubblici. Ma il quadro completo della rete industriale regnicola sarebbe incompleto senza accennare agli stabilimenti siderurgici privati. Ci riferiamo ad esempio alla Ferriera privata appartenente al principe Filangieri in Calabria, seppur distrutta da un’alluvione nel 1855. Più fortunato fu invece il trasferimento da Bristol, nel 1852, di Thomas Richard Guppy, l’industriale che aveva costruito uno dei primi transatlantici il “Great Western” e che a Napoli aveva dato vita a una fabbrica di chiodi e punte di Parigi, poi divenuta una ferriera con molte officine. Egli godeva della protezione del governo borbonico che, tra l’altro, gli aveva dato il monopolio per la produzione dell’ottone per le caldaie a vapore della marina. L’importanza di questa fabbrica risiede anche nel fatto che fu la prima a produrre macchine agricole che da allora vennero impiegate nell’agricoltura del Regno. La fonderia di Macry Henry, di fronte ai Granili, sul ponte della Maddalena, produceva poi ghisa di Scozia di altissima qualità mentre a Capodimonte l’opificio Zino Henry produceva tra le varie macchine a vapore per pulire e lavorare la lana, una trebbiatrice Pitts, una delle prime in Italia. L’officina Zini fu premiata in un’esposizione internazionale tenutasi a Napoli nel 1835, ricevendo la medaglia d’oro. La forza di queste due fonderie stava nel fatto che nelle fabbriche c’erano anche delle scuole per gli operai con l’obiettivo di creare una manodopera specializzata e competente nella produzione di qualunque macchina in ferro. La lavorazione del ferro eccelleva anche in prodotti specialistici e di precisione. A Napoli, ma anche in Abruzzo, e in Molise, spiccavano famose coltellerie specializzate anche nella produzione di ferri chirurgici e, più tardi, di quell’acciaio speciale richiesto per la fabbricazione di lime fino ad allora importate dalla regione della Stiria in Austria, dall’Inghilterra e dalla Svizzera. La lima napoletana raggiunse livelli di perfezionamento e precisione giudicati tali da superare l’inglese, la francese, la sveva e la carinzia. Serrature e letti di ferro erano prodotti a Napoli dal Boulanger e a Chieti dal Ruotolo. Francesco Solazzo, direttore della Società Industriale Partenopea, produceva  200 mila libbre all’anno di caratteri tipografici di ottima qualità. La produzione di otori magnetici, barometri, bilance, stadere, ruote idrauliche, sedie e tavolini di canelli di ferro, motori di tipo idraulico, elettrodomestico e magnetico, telai meccanici, pettini a denti d’acciaio per le tessiture di seta, lana e cotone, trivelle, frantoi, macchine agricole, trombe d’acqua per irrigare era affidata a una miriade di piccoli imprenditori locali napoletani che facevano così girare l’economia rifornendo il Regno di macchine e arnesi indispensabili per il progresso economico e sociale. Altre piccole fabbriche o fucine artigiane di strumenti agricoli erano disseminate in Abruzzo, Calabria, Basilicata.
Lo sviluppo industriale siderurgico portò, inoltre, alla realizzazione dei primi ponti in ferro come il ponte a maglie sul Garigliano del 1832, con traliccio metallico sospeso che andò a sostituire il ponte a spranghe di ferro di Alfonso d’Aragona risalente al 1444 o il ponte sul Calore del 1835, analogo a quello del Garigliano costruito con ferro prelevato e lavorato dalle ferriere calabresi di Filangieri. Non è inoltre da dimenticare che lo sviluppo ferroviario si lega a quello siderurgico e metalmeccanico.
Con questo impianto industriale siderurgico e metalmeccanico a gestione pubblica e privata che provvedeva non solo a costruire, ma anche a riparare le macchine impiegate in diversi tipi di industrie, (per la riparazione si prestavano soprattutto gli stabilimenti del Zini e dell’Henry), Napoli si svincolava così dalla necessità di doversi rivolgere a Stati stranieri per questo tipo di spese.
Francesca Romano